Salirono insieme, la madre e la figlia, al piano superiore; nell’anticamera la madre che offesa da quello scherzo del vestibolo non aveva detto parola, domandò alla fanciulla cosa avrebbe fatto il giorno dopo. “Il tennis“ rispose Carla; dopo di che senza abbracciarsi andarono ciascuna nella propria stanza.
In quella di Carla, la lampada era accesa, ella aveva dimenticato di spegnerla, e in quella bianca luminosità pareva che i mobili e tutte le altre cose stessero in attesa della sua venuta; ella entrò e subito macchinalmente andò a guardarsi nel grande specchio dell’armadio: nulla di anormale nel suo volto, fuorché gli occhi stanchi, segnati, eppure misteriosamente scintillanti; un alone tra azzurro e nero li circondava, e i loro sguardi profondi pieni di speranze e di illusioni la turbavano come se fossero partiti da un’altra persona. Restò così per un istante con le mani appoggiate sullo specchio, poi se ne staccò e sedette sul letto; si guardò intorno: la stanza per molti aspetti pareva quella di una bambina di tre o quattro anni; i mobili erano bianchi, bassi, igienici, le pareti erano candide con fregi azzurri, una fila di bambole dalle teste storte, dagli occhi capovolti, neglette e cenciose, sedevano su quel piccolo canapè sotto la finestra; l’arredamento era quello della sua infanzia e la madre a corto di quattrini non aveva potuto sostituirlo con un altro, più addicente alla sua maggiore età; e del resto, le aveva detto, che bisogno c’era di un nuovo mobilio? ella si sarebbe sposata e avrebbe lasciato la casa. Così Carla era cresciuta nella cornice angusta dei suoi anni più lontani; ma la stanza non era restata come allora, nuda e infantile, ogni sua età vi aveva lasciato una traccia, gingilli o cenci; ora la stanza era piena, comoda e intima, ma d’una intimità ambigua, a volte donnesca (per esempio la teletta dai nastri sciupati, coi profumi, le ciprie, le pomate, i belletti, e quelle due larghe giarrettiere rosee appese presso lo specchio ovale) a volte puerile; e un molle disordine, tutto femminile, fatto di panni abbandonati sulle sedie, di flaconi aperti, di scarpette rovesciate, complicava l’equivoco.
Carla guardava queste cose con uno stupore tranquillo; nessun pensiero passava attraverso la sua contemplazione: ella stava seduta sul suo letto, nella sua camera, la luce era accesa, ogni cosa era al suo posto come le altre sere, ecco tutto… Incominciò a spogliarsi, si tolse le scarpe, il vestito, le calze… tra questi atti abitudinari osservava furtivamente intorno, vedeva ora una testa irsuta di bambola, ora l’attaccapanni carico di vestiti, ora la teletta, ora la lampada… e quella luce; quella luce speciale, tranquilla, familiare che a forza d’illuminarli pareva essere negli oggetti stessi della stanza, e che insieme con la finestra ben serrata e velata da certe mezze tendine molto candide dava un senso piacevole e lievemente angoscioso di sicurezza… sì non c’era dubbio… ella era nella sua stanza, nella sua casa; era probabile che fuori di quelle mura fosse la notte, ma ella ne era separata da quella luce, da quelle cose in modo che poteva ignorarla… e pensare di essere sola, sì, completamente sola e fuori del mondo.
Finì di spogliarsi, e tutta nuda, scrollando la grossa testa arruffata si alzò e andò all’armadio per prendervi un pigiama nuovo; fece quei pochi passi con leggerezza sulle punte dei piedi; aprì il cassetto e osservò chinandosi che anche i grossi seni si muovevano per conto loro, là, sotto i suoi occhi; nel rialzarsi si vide nello specchio; la colpì l’atteggiamento goffo, se non vergognoso, di tutto il corpo nudo e poi la sproporzione tra la testa troppo grande e le spalle esigue; forse a causa dei capelli; prese uno specchio dalla mensola dell’armadio e se lo passò dietro la nuca; erano lunghi: “Bisogna che io vada dal parrucchiere“ pensò.
Si guardò ancora… ecco… le gambe erano un po’ storte, oh appena! dai ginocchi in giù, e il petto… il petto era troppo basso; se lo sollevò un poco, con le due mani; “dovrebbe essere così“ pensò; voltò la testa, tentò di sbirciarsi il dorso; allora mentre i suoi sguardi tentavano da sopra le spalle di abbracciare per intero quella sua altra immagine, l’assalì il senso del contrasto tra la futilità di questi suoi atteggiamenti e gli avvenimenti gravi occorsi in quel giorno; Leo l’aveva baciata, si ricordò, pochi minuti prima; lasciò lo specchio e tornò al letto.
Sedette, per un istante restò immobile, cogli occhi fissi in terra.
“Comincia proprio una nuova vita” pensò finalmente; alzò la testa e, d’improvviso, le sembrò che quella stanza tranquilla, pura, e senza sospetto, e quelle sue abitudini tra meschine e sciocche fossero tutta una cosa viva, una sola persona dalla figura definita a cui ella andasse, senza parer di nulla, preparando sottomano un tradimento inaudito, “tra poco… arrivederci per sempre…“ si ripeté con una gioia triste e nervosa e fece un gesto di saluto da quel suo letto agli oggetti circostanti, come da una nave in partenza; delle immaginazioni pazze, vaste, tristi passavano per la sua testa, le pareva che una concatenazione fatale legasse questi avvenimenti: “Non è strano?” si diceva; “domani mi darò a Leo e così dovrebbe incominciare una nuova vita… e appunto domani è il giorno in cui sono nata“; si ricordò di sua madre; “ed è col tuo uomo“ pensò ”col tuo uomo, mamma, che andrò“. Anche questa ignobile coincidenza, questa sua rivalità con la madre le piaceva; tutto doveva essere impuro, sudicio, basso, non doveva esserci né amore né simpatia, ma solamente un senso cupo di rovina: “Creare una situazione scandalosa, impossibile, piena di scene e di vergogne“ pensava; “completamente rovinarmi…”. Teneva la testa bassa e ad un certo punto alzando gli occhi si vide nello specchio dell’armadio e senza saper perché incominciò a tremare per tutto il corpo; avrebbe voluto piangere e pregare, le pareva che questi pensieri tristi l’avessero già perduta. “Dove va la mia vita?“ si ripeteva guardando in terra; “dove va?”.
Finalmente queste parole dolenti non ebbero più alcun significato, s’accorse di non pensar più nulla, di esser nuda, di star seduta sulla sponda del letto; la lampada brillava, intorno gli oggetti stavano al loro posto di tutte le sere; dell’esaltazione di poco prima non le restava che un’amarezza vuota; le pareva di essersi con sforzo avvicinata al centro puro del suo problema e poi di averlo inspiegabilmente perso di vista.
“Succederà quel che succederà” pensò; raccolse il pigiama, pigramente lo infilò; scivolò sotto le coltri, spense la luce; chiuse gli occhi.